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14.01.2023

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La comunicazione nell’era dell’intelligenza artificiale

“La pittura è morta”: lo disse nel 1839 il pittore francese Paul Delaroche, che era stato messo a capo di una commissione governativa con lo scopo di riferire sull’invenzione della fotografia, resa pubblica poche settimane prima all’Accademia delle Scienze di Parigi.

Il fatto che all’improvviso fosse possibile riprodurre la realtà tramite un processo chimico, mentre fino a quel momento ci era voluto un artista (in altre parole: una rara specie di essere umano), era troppo sconcertante per immaginare che la pittura potesse sopravvivergli.

Eppure Delaroche non era del tutto pessimista al riguardo, e nella sua relazione scrisse alcuni passi visionari: “Il processo di Daguerre […] porta tutti i princìpi essenziali dell’arte a una perfezione tale, da diventare necessariamente oggetto di osservazione e di studio anche per i pittori più esperti […] il pittore potrà scoprire in questo processo un semplice mezzo per la raccolta di studi, che egli avrebbe altrimenti potuto ottenere soltanto dopo un lungo periodo di tempo, con molta fatica”.

Al termine del rapporto in cui sembra contraddire la sua stessa profezia sulla morte della pittura, Delaroche afferma che “l’ammirevole scoperta di Daguerre ha reso all’arte un immenso servizio”.

Nemmeno sessant’anni dopo (1895), sempre a Parigi venne presentata un’altra dirompente invenzione tecnologica: il cinematografo. Anche in quel caso si pronosticarono non solo l’imminente scomparsa della pittura (nel 1915 il pittore futurista Giacomo Balla scrisse nel suo Manifesto del colore: “Data l’esistenza della fotografia e della cinematografia, la riproduzione pittorica del vero non interessa né può interessare più nessuno”), ma anche della fotografia che aveva appena fatto in tempo a nascere.

Più di recente, profezie di estinzione sono state fatte per i dischi in vinile all’avvento del cd e della musica liquida, per i libri cartacei dopo gli ebook, per le fotocamere dopo gli smartphone. Nessuna di queste si è avverata. Oggi un dibattito simile riguarda l’intelligenza artificiale (AI), e in particolare piattaforme come Midjourney e ChatGPT, dove un computer che presumiamo dotato di capacità intellettive (ma non per forza intellettuali) è in grado di produrre articoli, saggi, interi libri o immagini del tutto realistiche a partire da poche istruzioni scritte.

Il timore diffuso è: l’intelligenza artificiale sostituirà quella umana e la renderà superflua, portando infine all’estinzione fotografi, filmmaker, scrittori, copywriter e altre professioni simili fondate sulla creatività. Tuttavia, il creativo o artista – ammesso che classifichiamo come tali un fotografo, un videomaker, uno scrittore o un copywriter – non spicca necessariamente per l’intelligenza, o soltanto per l’intelligenza. I suoi tratti distintivi sono altri: la sregolatezza (Caravaggio), la fantasia sfrenata (Bosch), al limite la follia (Van Gogh), la capacità non comune di pensare in modo trasversale e di vedere il mondo con gli occhi e la mente di un bambino. “Ogni bambino è un artista” disse Pablo Picasso. “Il problema è capire come rimanerlo quando si diventa adulti.”

Non c’è dubbio che nell’industria della comunicazione l’AI sia un potente strumento funzionale a ridurre sensibilmente tempi e costi di alcune fasi (per esempio la ricerca delle reference per una campagna, la creazione di moodboard o la stesura di trattamenti) e ad aumentare in maniera significativa l’efficienza dei flussi produttivi (“…che egli avrebbe altrimenti potuto ottenere soltanto dopo un lungo periodo di tempo, con molta fatica”).

Ignorare l’esistenza di questo strumento e le opportunità di piegarlo a proprio vantaggio sarebbe insensato e controproducente, più o meno come aver negato il potenziale della fotografia a Parigi nel 1839. Resta da vedere se e quando un computer, al di là dell’intelligenza, sarà anche capace di fare una cosa tremendamente complessa: pensare come un bambino. Anche quando si tratta di semplice intelligenza, fino a oggi nessun computer è riuscito a superare il test di Turing, ideato per distinguere un essere umano da una macchina, a eccezione di un caso del 2014 in cui un cleverbot battezzato Eugene Goostman è riuscito a convincere il 33% dei giudici di essere un adolescente in carne e ossa. Tuttavia i risultati di quel test non hanno persuaso all’unanimità il mondo scientifico, visto che il bot, per ammissione dei suoi stessi creatori, simulava un ragazzo di 13 anni non madrelingua inglese: ciò “rendeva perfettamente plausibile che non sapesse molte cose” e potrebbe aver tratto in inganno i giudici.

La psicologia definisce la creatività come un processo di dinamica intellettuale che ha i seguenti fattori caratterizzanti: particolare sensibilità ai problemi, capacità di produrre idee, originalità nell’ideare, capacità di sintesi e di analisi, capacità di definire e strutturare in modo nuovo le proprie esperienze e conoscenze. Sulla base di questa definizione ci si chiede: una macchina potrà mai essere creativa come un essere umano? In un celebre saggio del 1979 sull’intelligenza artificiale, l’esperto statunitense di scienze cognitive Douglas Hofstadter sosteneva che sarebbe successo quando la macchina avesse imparato a piangere.

Oggi un computer è senz’altro capace di immaginare e dare corpo a creature ancora più deliranti di quelle che popolano i quadri di Hieronymus Bosch, e di farlo senza sosta e in quantità teoricamente infinita, ma il punto è che c’è bisogno di un essere umano che glielo ordini, mentre a Bosch l’impulso a creare giungeva, benché per vie e ragioni insondabili, dalla sua stessa mente. In altre parole, dal momento che non sa come si fa a piangere, la macchina non è ancora capace di mettere in atto processi creativi autonomi e irrazionali basati sugli stimoli delle emozioni. Chiunque si trovi al cospetto di un’opera d’arte, anche se privo degli strumenti culturali adeguati, la percepisce come tale perché sente le emozioni che hanno spinto l’autore a crearla. Vale anche per la fotografia, la scrittura, e una buona campagna di comunicazione.

Nel frattempo, la rapida diffusione dell’AI ci costringe ad affrontare alcuni importanti temi etici. Il primo è questo: se il computer non produce autonomamente, bensì attingendo a gigantesche banche dati di opere dell’ingegno preesistenti (immagini e testi), ciascuna delle quali creata da un essere umano che ha il diritto di rivendicarla, la proprietà intellettuale del prodotto finale è da attribuire al computer, oppure in uguale misura al computer e a chi gli ha fornito l’input creativo, o ancora è da suddividere equamente anche fra gli autori di tutte le opere archiviate nella memoria della macchina, o soltanto fra quelli delle opere cui la macchina si è ispirata per quello specifico prodotto? E in quest’ultimo caso, come farsi dire dalla macchina esattamente da quali, fra milioni di opere, ha tratto ispirazione? Il tema ricorda le polemiche ricorrenti attorno ai lavori di Pablo Picasso e di Amedeo Modigliani, due degli artisti più quotati al mondo, spesso accusati di aver attinto fin troppo liberamente (per non dire aver copiato senza ritegno) dagli stilemi dell’arte africana.

Il secondo tema è deontologico: se tutte le immagini possono essere potenzialmente false (nel senso di rappresentazioni artefatte della realtà) e al tempo stesso potenzialmente presentate e percepite come autentiche, che ne è del ruolo di testimonianza delle immagini, del loro valore documentaristico, storico o comunicativo? Come può un fotogiornalista farsi garante dell’autenticità delle immagini che diffonde in modo da risultare credibile (ed essere creduto) da un pubblico per il quale già adesso è sempre più difficile discriminare il vero dal falso? E come può farlo un’azienda, quando comunica il proprio brand usando immagini che promettono di rappresentare la sua realtà e i suoi valori?

In questi casi la professione giornalistica, dato che chi la pratica è vincolato al rispetto delle norme deontologiche, rappresenta un baluardo fondamentale e la migliore garanzia di credibilità.