Seleziona una pagina

12.05.2023

Tempo lettura: 8 min

Come comunicare la transizione?

L’orso bianco è deperito, con lo sguardo spento e il pelo sciupato. È su un iceberg alla deriva ed è chiaro che non potrà restarci ancora a lungo, perché lì non c’è niente da mangiare. La foto è accompagnata da una frase che trasmette un senso di urgenza, del genere: facciamo qualcosa prima che sia troppo tardi.

È il classico messaggio sulla transizione, uno dei temi più attuali e complessi che – sia che si tratti di transizione energetica, ecologica, sociale o economica – ne sottende sempre un altro: la salvaguardia del Pianeta e della nostra specie. Il messaggio funziona? Temiamo di no, per due motivi: la transizione è un’azione globale che ha bisogno del contributo e dei sacrifici di ciascuno di noi, ed è improbabile che le persone si sentano spinte ad agire dall’empatia che è in grado di suscitare un orso in estinzione (o un leopardo delle nevi, o un rinoceronte bianco).

Inoltre, associare alle condizioni dell’orso polare un tema di portata e complessità smisurate come la transizione è un approccio quantomeno semplicistico, e rischia di distogliere l’attenzione dal vero problema. Che è la necessità di preservare il Pianeta non in quanto casa dell’orso, bensì in quanto casa – per ora l’unica disponibile – della nostra specie.

La Terra esiste da quattro miliardi e mezzo di anni, è sopravvissuta a cataclismi di spaventosa violenza e non verrà turbata più di tanto da un innalzamento della temperatura media di qualche grado. Invece a galleggiare su quell’iceberg finiremo noi esseri umani. In altre parole, il nostro orso polare è il profugo climatico: oggi sono 20 milioni (stima cautelativa delle Nazioni Unite), in fuga da terre diventate inabitabili per via dei fenomeni atmosferici estremi indotti dal riscaldamento globale. La cifra, in costante aumento, domani potrebbe comprendere anche noi, che ci sentiamo ancora relativamente al sicuro. E sappiamo che non c’è comunicazione più efficace di quella che parla alle persone di loro stesse.

Di qualsiasi natura sia la transizione, il succo del messaggio è identico: dobbiamo ridurre il nostro impatto sul Pianeta non tanto per salvare il Pianeta, quanto per sopravvivere. Il modo più efficace di misurare quell’impatto è la CO2, che emettiamo nell’atmosfera per circa 51 miliardi di tonnellate l’anno. CO2 è la parola chiave che istintivamente associamo al cambiamento climatico, benché il gas sia alla base del ciclo vitale della natura e della fisiologia umana: è un dato di fatto che la Terra rischi di essere resa invivibile proprio dal gas che – insieme all’ossigeno – finora ha contribuito a tenerla in vita. Tra il 2008 e il 2018 le emissioni di CO2 sono aumentate del 12 per cento a causa delle attività antropiche. Uno studio della NASA mostra come il suo livello nell’atmosfera terrestre, rimasto sostanzialmente stabile al di sotto delle 300 parti per milione negli ultimi 800 mila anni, a partire dalla seconda metà del XX secolo sia rapidamente cresciuto fino alle 310 parti per milione del 1950, e alle oltre 410 di oggi.

Quando parliamo di transizione non possiamo evitare di parlare di CO2 per il semplice motivo che ogni nostra attività provoca l’emissione di anidride carbonica e di gas serra CO2 equivalenti: la generazione di energia tramite combustibili fossili, l’estrazione degli idrocarburi (che pesa per il 10% delle emissioni totali), la mobilità a motore termico (14%), il settore industriale (21%), ma anche la produzione di cemento (oltre il 10%) e l’allevamento e l’agricoltura intensivi, che insieme impattano per il 24% del totale. Questi pochi dati sono sufficienti per farsi un’idea di quanto sia complesso il tema della transizione, senza considerare variabili sociali come il miliardo di persone che non hanno ancora accesso all’energia elettrica, o le centinaia di milioni costrette a vivere in alloggi di fortuna (situazioni che è necessario risolvere, ma che una volta risolte sarebbero fonti di ulteriori emissioni).

Da un lato, ridurre le emissioni per contenere il riscaldamento globale e le sue conseguenze devastanti (scioglimento dei ghiacci e innalzamento degli oceani, desertificazione, piogge acide, siccità, fenomeni atmosferici sempre più estremi) è diventato un imperativo categorico. Nella sua classifica delle minacce globali, l’assicurazione Axa nel 2021 è tornata a mettere al primo posto il cambiamento climatico, seguito dalla pirateria informatica, mentre il Covid, dopo due anni di primato, è scivolato in terza posizione.

L’acceleratore fondamentale della transizione è il progresso tecnologico: sistemi sempre più efficienti di generazione e stoccaggio di energie rinnovabili, soluzioni di mobilità elettrica, materiali e metodi di costruzione a basso impatto ambientale. Ma anche: città intelligenti, princìpi di economia circolare applicati ovunque possibile, agricoltura e allevamento sostenibili.

Dall’altro lato, però, l’imperativo categorico si scontra con fattori pesantemente contrastanti come la sempre maggiore domanda di energia, l’urbanizzazione incipiente (le Nazioni Unite stimano che entro il 2050 i sette decimi degli esseri umani vivranno in megalopoli), il costante incremento del volume dei trasporti e soprattutto la sovrappopolazione: prima della metà del millennio saremo nove miliardi, il che si tradurrà in ancora più energia da generare, più alloggi da costruire, più cibo da produrre. Ovvero, più emissioni di CO2. Questi fattori, per quanto veloce il progresso tecnologico possa avanzare, almeno sulla carta sembrano rendere irraggiungibili gli obiettivi dell’accordo di Parigi del 2015, che prevede di contenere il rialzo della temperatura media globale entro i 2°C.

Basta tuttavia adottare un approccio diverso al problema per rendersi conto che l’obiettivo appare utopistico solo sulla carta, perché quando parliamo di ridurre le emissioni pensiamo di solito alla pura e semplice necessità di smettere di produrre CO2, cioè alla decarbonizzazione assoluta. Questa è una prospettiva irrealistica: come spiega Bill Gates nel suo ultimo libro Clima, come evitare un disastro, “per azzerare le emissioni non esistono strade realistiche che contemplino il totale abbandono dei combustibili fossili o l’interruzione di tutte le altre attività responsabili dei gas serra”. Invece la ricerca sta facendo enormi passi avanti per mettere a punto tecniche di cattura dell’anidride carbonica dall’aria, di stoccaggio, ma soprattutto di riciclo intelligente: con la mineralizzazione o la biofissazione tramite microalghe per ricavarne prodotti come polimeri, biocarburanti, cemento o farine, riutilizzabili in edilizia, in cosmetica, in prodotti alimentari, oppure per mezzo di ricomposizione molecolare in sostanze anch’esse riutilizzabili a impatto zero, come il metano sintetico. A questo proposito John Kerry, inviato speciale degli Usa per il clima, nel 2021 ha dichiarato che almeno il 50% del taglio alle emissioni necessario per arrivare in tempo alla neutralità carbonica proverrà da “tecnologie che non sono state ancora inventate”. Ed è proprio questa la via più promettente per neutralizzare le cosiddette emissioni imprescindibili, che la transizione energetica non sarà sufficiente a contenere da sola.

Adottare un approccio diverso significa anche cambiare la narrazione: dato che c’è di mezzo la sopravvivenza della nostra specie, potrebbe essere utile ispirarsi alle lezioni impartite dal Covid-19 e immaginare il riscaldamento globale come una pandemia potenzialmente molto più letale, la CO2 come il virus che l’ha provocata e la transizione come un vaccino da sviluppare il più in fretta possibile. Mentre ciascuno di noi, in attesa che il vaccino venga sintetizzato e messo in distribuzione, fa la propria parte per contribuire ad arginare la diffusione del contagio. In altre parole, quando si tratta di comunicare la transizione, è fondamentale tenere al centro le persone: sia come destinatarie del cambiamento, sia, soprattutto, come sue indispensabili protagoniste.

Sull’iceberg alla deriva c’è un essere umano.

Per altri contenuti di approfondimento come questo e per aiutare il tuo brand a crescere, visita la pagina del nostro blog We Share.